venerdì 6 maggio 2016

L'epilessia l'ha fatto a pezzi, un po' come fa l'amore...

Conoscere i Joy Division un paio d'anni fa e non nel 1997 è stato un miracolo. All'epoca avrei desiderato solo fare la fine di Ian, che il controllo l'ha perso definitivamente, oggi invece penso a Lui come quando da bambina pensavo a quel fratello nato morto che, grazie alla sua scomparsa ha permesso a me di vivere anche la sua vita, cosa che non volevo. In realtà non volevo vivere neanche la mia, non per sadomasochismo, ma era stato tutto troppo pesante sin dall'inizio: il mio sistema nervoso centrale è stato messo a dura prova fin dall'asilo, quando quel ragazzino balordo mi metteva i pastelli nelle
orecchie e premeva sempre più forte. Poi sono arrivate le elementari, ma io ero troppo grassa. A dirla tutta, lo ero anche per le medie e poi per il liceo.

Il primo controllo l'ho perso a 15 anni, ma nessuno se n'è accorto, neanch'io. Dal 1997 al 2012 sono passati esattamente 15 anni, come l'età in cui è cominciato l'incubo vitale che tuttora mi accompagna. Quindici anni di assalti senza motivo, senza aver provocato cose o persone, avendo sempre la stessa risposta: "Sospetta crisi comiziale". Tutto iniziava con un nuvolone grosso grosso che mi colpiva tutta la faccia - collo compreso - e che all'altezza degli occhi veniva perforato da accecanti saette solari. E poi il caldo, tanto caldo, troppo. All'epoca non sapevo nulla, a parte che i miei genitori avevano messo in giro la voce che perdevo i sensi perché volevo dimagrire e non mangiavo. E' vero che spesso non mangiavo o digiunavo o vomitavo. Oggi, a 34 anni, mi capita di digiunare, ma non vomito più. Però il problema non era quello.

Iniziai anche a uscire sempre di meno o, comunque, quando veniva il crepuscolo a darmi un po' di ossigeno. Poi non sono uscita più. Quanti psicologi, psichiatri, psicoterapeuti, dottorini che dicevano che cadere a terra con contorsioni di testa, braccia e gambe con relativa bava alla bocca e lingua morsicata fossero solo cali di pressione essendo io troppo alta... Dicevano che il sangue faticava a fare tutto il "giro". I miei genitori hanno sempre creduto ai medici, soprattutto ai primari, ai "professori". Ogni volta che "Lei" veniva a trovarmi ricominciava - nella disgrazia - la speranza di una via d'uscita, al risveglio. La speranza che qualcuno, finalmente, mi dicesse: "Sì, hai un male, il Grande Male". E invece no, con l'holter non scoprivano mai nulla.

In questi 15 anni mi sono documentata parecchio attraverso la Rete. Avevo scoperto perché mi dava fastidio il televisore col tubo catodico, perché non potessi giocare a Fifa, perché mi davano fastidio i fari delle macchine, le candele accese, le luci al neon e il sole d'estate. Avevo scoperto che dovevo smetterla col mio tè nero dal forte sapore di nichel, troppi minuti di infusione, il Cuba Libre. Dovevo smetterla coi troppi caffè e quando scoprii tutte queste e altre cose, avevo già iniziato a fumare da qualche anno e smettere era già difficile: perché privarmi anche del fumo? La musica era troppo bassa in cameretta, quindi mettevo le cuffie nelle orecchie e me la sparavo a tutto volume. Non dormivo tanto.

Poi dopo la laurea ho trovato subito lavoro, un paio di mesi dopo. Io lo leggevo, negli occhi dei miei, che erano stanchi di portarmi in giro per ospedali. Decisi, allora, di muovermi da sola, coi miei pochi soldini e di spenderli per dimostrare a me stessa che stavo male, che non ero pazza, che non ero problematica per caso. Ma, in primis, dovevo dimostrarlo ai miei. Poi dovevo dimostrarlo anche agli amici, che non capivano e si scocciavano quando mi fermavo in preda all'ansia, che poi è diventata panico.

Questi 15 anni mi hanno bloccata completamente, sento che mi sono persa troppe cose: l'adolescenza, i rapporti umani, le confidenze, quindici anni di pianti silenziosi, di pensieri mortali, di inutilità perenne. Un giorno in Rete mi misi a cercare dei neurologi nella mia città, dei neurologi specializzati in epilessia. Trovai un tizio e gli mandai un'e-mail. Gli spiegai la situazione e, alla fine, gli scrissi: "Se anche Lei pensa io sia pazza, quantomeno me lo dica, mi risponda". Lui mi rispose la sera stessa o due sere dopo, mi scrisse solo di prenotare una visita nell'ospedale in cui lavorava. Lui era molto pacato, ogni tanto sorrideva di un sorriso affettuoso provando una sincera pena guardandomi negli occhi. Non so perché, ma capii subito che mi avrebbe creduta e che, in qualche modo, avrebbe cercato di aiutarmi. E così fu. Mi parlò della deprivazione del sonno con stimolazione luminosa intermittente. Io gli dissi che non potevo, che questa cosa già avevo provato a farla un paio di anni prima in un altro ospedale e che non ce l'avevo fatta a guardare per più di due secondi quelle stimolazioni, che la paura di ri-morire era troppa, che la neurologa incazzata a un certo punto mi disse: "Vattene, che non hai nulla!".

Lui mi tranquillizzò, mi disse che il tecnico che lavorava con lui da una ventina d'anni mi avrebbe messo a mio agio. Non so come ho fatto, ma riuscii a guardare in quello schermetto per più di due secondi, una volta sono arrivata anche a quattro. Ho perso il controllo di nuovo, ma stavolta niente punti in testa, niente sangue, niente lividi, ero sul lettino.

Qualche settimana dopo andai a prendere il referto e aprii la busta. Il mio elettroencefalogramma era grazioso, confusionario, rispecchiava esattamente le saette. Fui felice, nonostante avrei rivisto il neurologo solo una settimana dopo e - quindi - nonostante non avessi ancora nessuna risposta. Ma io l'avevo capito da quegli scarabocchi, che la risposta era arrivata, che stavo per essere ammessa alla Facoltà della Terra. Uno dei due giorni più belli della mia vita è stato quando quella mattina mi sono recata da lui col referto, è stato il suo sguardo annuente guardando, quasi ammirato, i disegni dei miei nervi. Era marzo 2012 quando iniziai a prendere l'antiepilettico che ancora oggi mi accompagna e così farà per il resto della vita.

I miei genitori non capirono il mio entusiasmo, reagirono con un nervoso silenzio, non potevano ammettere a se stessi e alla "gente" che la loro figlia modello era epilettica. Mi spiego: le persone epilettiche che avevamo avuto modo di conoscere erano mio nonno alcolizzato, mio zio drogato e il mio compagno di scuola nonché vicino di casa, che ogni volta che i genitori litigavano e il padre picchiava la madre, finiva all'ospedale. Essere epilettico voleva dire essere disagiato, in qualsiasi modo una persona potesse esserlo. E io, non dimentichiamocelo, ero anche grassa, e già quello era motivo di vergogna per loro, che fin da bambina non mi hanno mai fermata, neanche alla decima merendina consecutiva.

Ci sono persone che sono più sfortunate di me e che sono farmacoresistenti. Io invece ora sto bene, non ho crisi da ben 4 anni anche se continuo ad avere attacchi di ansia. Ma quelli di panico erano assai più dolorosi, in tutti i sensi, credetemi! E il colmo è che io li prendevo per il culo, tutti questi che dicevano di avere gli attacchi di panico senza apparenti motivi. Ora, quando serve, prendo delle gocce di benzodiazepina che ho sempre in borsa. Ma non prendo più altro e questo è merito mio: Citalopram, Depakin, Lexotan, Tavor, niente più. Devo ammettere, però, che l'antidepressivo mi ha aiutata molto e così anche il lorazepam. Il bromazepam era quasi perfetto, ma mi faceva dormire troppo e stavo rischiando una lettera di richiamo. L'acido valproico secondo me è il farmaco più adatto a me poiché stabilizza l'umore, previene l'ansia, è un antiepilettico. E' un peccato che mi facesse girare la testa, ma ora la mia vita è in mano alla lamotrigina e alle gocce miracolose del clonazepam e così va bene, non desidero altro.

Ne parlo solo ora perché è ora che ho cominciato a vivere: niente più psichiatri, nessuna scusa per non uscire, occhiali scuri fino a crepuscolo finito senza vergognarmi. Nell'80 l'epilessia era un tabù assai occulto, ancora più di oggi. E' per questo che Ian Curtis si è tolto la vita, lo so. Come poteva far fronte a una vita vissuta solo per cibarsi, dormire e pensare sempre a una sola cosa? E quindi, alla fine, l'epilessia l'ha fatto a pezzi, un po' come fa l'amore.

Ecco perché ora ne parlo, perché l'epilessia è amore: mi accompagna perché fa parte di me, mi sgrida quando non mi comporto bene, mi fa del male quando non la rispetto, minaccia di lasciarmi "andare". Non mi va più di scrivere, mi sono resa conto di aver scritto tanto ma di aver toccato solo approssimativamente ogni aspetto, ma perdonatemi, 15 anni sono tanti da raccontare. Lo farò nei prossimi post, però, dato che ancora non ho ben dimostrato che non siamo pazzi, ma solo più affascinanti degli altri, perché abbiamo visto un qualcosa in più, che ci farà affrontare meglio la morte, quando verrà a portarci via entrambe.

Eleonora Clemm



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