domenica 30 ottobre 2016

Non sono quello di prima 

Immagine creata da Etan Vescera
Mi chiedevano perché raccontassi a tutti quello che mi era successo. Per carità, la malattia non era certo vista come una vergogna, ma sapete come sono i piccoli paesi di provincia. C’era molta reticenza, il paese mormora, si tende a dire.


Sembra quasi che tu ne faccia un vanto, mi hanno detto una volta.

Soffro di una malformazione vascolare congenita che ha portato alla formazione di cavernomi nella mia testa. Cavernomi che una notte si sono rotti. A fronte di un quadro clinico disperato ne sono uscito con la sola epilessia dopo poco più di un mese di ospedale. 

Come potevo parlare con le solite persone, quelle della vecchia vita, fingendo di essere lo stesso? Per primi mi guardavano come un sopravvissuto, non era possibile ignorare che non ero più quello di prima. Sentivo la necessità di presentarmi con onestà per quello che ero diventato: un ventenne epilettico con qualche esigenza in più e un po’ di serenità da ritrovare. 

Ma qualcosa si era incrinato per sempre. Il carico emotivo che portavo con me e il desiderio di non nascondermi erano pesi troppo grandi da gestire. Le persone non volevano sapere, non mi volevano per quello che ero diventato. Prima del ricovero lavoravo nell’ufficio di un istituto religioso, beh, anche il prete mi guardava con diffidenza. 

Se io non ero più io, allora quello non era più il posto per me. Con la testa ancora fasciata e il primo abbozzo di terapia cominciato da soli due mesi, ho fatto armi e bagagli e me sono andato. Da quando mi sono ammalato, ormai quindici anni fa, è cambiato il mio modo di vedere le cose, sono cambiati i miei ritmi e le mie necessità. 

Io sono anche la mia epilessia. Senza non avrei sperimentato certi pensieri, non avrei mai conosciuto alcuni lati di me, determinate risorse che non sapevo di possedere. Non avrei incontrato persone meravigliose che mi amano veramente e non hanno paura di ciò che sono. 

Non mi vanto di essere epilettico, non sono grato alla malattia, ma ho una vita sola, è questa qui, e cerco di tirare fuori tutto il buono possibile, e se potessi anche l’impossibile. Lo devo a chi mi ha accolto a braccia aperte quando non avevo più nessuno, lo devo a me stesso. 

Andrea Giuseppe Capanna

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