mercoledì 30 agosto 2017

FRAMMENTI DI EPILESSIA/2: “Simula una crisi”

foto di Cinzia Sgheri, per il servizio
che realizzai per Mente&Cervello
Mi spiace, ma anche oggi mi dovrete sopportare. Almeno un po', dai
Al risveglio ho avuto una “fluttuazione”, come il mio medico chiama le crisi dovute al cambio di terapia. Intensa, ma non è evoluta in convulsioni. Purtroppo quel frangente mi ha evocato i gironi scorsi e mia ha attanagliato il pensiero che “ci risiamo, ora si ricomincia”.

Così mi son messo qui, a scrivere, ho pensato: “sai mai che abbia, di nuovo, tali effetti benefici”. Inoltre, per esperienza so che mettersi a letto ad aspettare, non serve. Anzi, è peggio: induce uno stato di continua allerta in cui ti chiedi, quasi in modo ossessivo: arriva o non arriva?! E il rischio di confondere segnali “veri” con suggestioni è reale. E di lavorare, per ora non me la sento.
Sbando. Sono caduto tre volte - una in bagno, due nel corridoio. Nulla di grave, la mia compagna mi ha raccattato.
L’USCITA DA SCUOLA - Oggi voglio raccontare un episodio lontano nel tempo, che molti cari amici conoscono già: l’uscita da scuola.
Al liceo, l’uscita era un momento terribile: puntuale, arrivava la crisi. Che imbarazzo, cadere in mezzo ai compagni - tra cui le ragazzine che ti piacciono, che all’uscita cerchi con lo sguardo, per dire.
Per questo vivevo quel momento con vergogna profonda. E angoscia. Sopprimerla, non serviva: la paura che la crisi arrivasse - paradossalmente - la provocava. Già, può auto-indursi, perché c’è un dato organico - il “focolaio”, questo gruppo di cellule che funziona da “interruttore” - che può essere attivato da uno “stressor” esterno/interno.
Insomma, puntuale, sui gradini del liceo, o sul marciapiede, andavo per terra. Poco dopo arrivava un’ambulanza, che rifiutavo nonostante cercassero di terrorizzarmi (“potresti avere un trauma cranico!”). Mi facevodare due punti, firmavo e andavo via.
Ma gli sguardi dei compagni, conosciuti e non, rimanevano concentrati su di me, stordito. A volte sanguinante leggermente. Altre spaccato.
Poiché quell’appuntamento diventò puntuale e angoscioso, qualcosa dovetti inventarmi. E lo psicologo che mi seguiva mi suggerì un “esercizio” per affrontare la situazione.
Il suo ragionamento prendeva le mosse da una premessa corretta: poiché durante la crisi c’è perdita di coscienza, non sai mai che cosa accada attorno a te, come reagiscono realmente gli altri, come ti guardano, e la mente può proiettare su quei minuti di assenza qualsiasi fantasia. Era così, fantasticavo il peggio. Perché sembra strano, ma tu che hai le crisi, non sai mai in che cosa - davvero - consistano, perché in quel momento non ci sei.
Ho detto che mi suggerì un esercizio. Esatto: simularne un attacco e guardare gli altri negli occhi.
Ci provavo, ma non riuscivo, trovavo tanto logico quanto disumano chiedermi di “trovarmi” intenzionalmente in quella che per me era un incubo.
Alla fine, una sera, camminando lungo l’Arno con alcuni ragazzi trovai la forza e mi buttai a terra. Simulai le convulsioni e lo sguardo stravolto, come da copione. Nel frattempo, li guardavo. Gli sguardi erano impauriti, preoccupati, disarmati. Alcuni mi reggevano la testa, che stavo sbattendo sul marciapiede, altri tentavano di tener ferme le gambe. Vedevo che non sapevano che fare. Ma sì, cercavano di aiutarmi.
Fu duro, ma utile, anche se non ho più trovato il coraggio - disperato - di ripetere quell’”esercizio”.
Quel che ho fatto riproduce, in piccola scala, la logica (spontanea) che ha guidato il mio “outing”: mettendo l’oggetto della vergogna sulla pubblica piazza si scopre che la piazza sa abbracciare e apprezzare, non (solo) stigmatizzare. A quello ci pensano le istituzioni e i meccanismi sociali di esclusione in esse inscritti dal potere, che non può cedere il suo controllo sui corpi e sulla mente.

Update ore 14 - 5 minuti di respiro per dire che, ahimè, si ricomincia. Vado offline Di Ranieri Salvadorini

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