venerdì 4 maggio 2018

La pancia delle monache

T
olgo i piedi dalla bilancia e li poso di nuovo nudi sul pavimento. Non è così freddo, il termosifone dietro già scalda i polpacci. Alzo la testa ed eccomi a quel momento familiare a tutti, quello in cui ci si guarda sinceramente allo specchio, di prima mattina, brutalmente così.



I capelli andrebbero tagliati, la barba se potesse parlare mi implorerebbe di darle una forma dignitosa. Le occhiaie e quelle rughe di espressione che ormai, inesorabili ai quaranta, si sentono già compagne di vita. Poi mi tocco la pancia. Per carità, non è così voluminosa, ma è presente, morbida, come direbbe mia mamma, una “pancia della monache”, di quelle che si muovono come un budino.
Ma sono stato anche io magro, lo giuro. Ricordo ancora con affetto e non lo nascondo, terrore, la mia era dei sofficini. La chiamo così perché sono stato un bambino decisamente inappetente e svogliato a tavola, per nulla amante del cibo. Mamma, dove aver scoperto che i sofficini li mangiavo con meno disgusto rispetto ad altro, svaligiava il banco frigo, e a tavola andava in scena la turnazione dei gusti: formaggio, pomodoro, spinaci (ma non sempre), funghi, prosciutto e formaggio, e via a ricominciare.
Col il tempo la situazione è cambiata, e come altri aspetti della mia vita, quando stavo finalmente cominciando ad amare la tavola, tutto è cambiato. La malattia ha mutato il mio metabolismo da ventenne in quello di un quarantenne, e nel giro di una notte. Nemmeno il soggiorno forzato in ospedale, l’operazione e i digiuni forzati erano riusciti a farmi dimagrire. Anzi.
La mia successiva dieta da studente, che come potrete immaginare non era così varia o sana, non portava punti a favore, ma hey, avevo comunque vent’anni, e il mio povero fegato, nonostante macinasse lavoro come le rotative di un quotidiano, compiva il miracolo. Aggiungiamo a questa tabella dei ricordi nutrizionali il fatto che la mia terapia era ancora un tentativo, e le crisi prosciugavano le mie energie amplificando anche la fame, vuoi per sfogo, vuoi per esigenza. Dicevo, il miracolo stava nel misterioso bilanciamento di questo caos, ero sempre magro, come mi ricorda quella voce dall’armadio, quella dei mie jeans taglia quarantadue.
La pacchia, si fa per dire, finisce per tutti e la mia era finita da un pezzo, avevo solo goduto di titoli di coda particolarmente lunghi.
Pasticche, routine, pasticche, trent’anni, una pizza, un gelato, pasticche, trentuno, l’amore, la morte, lasagne, pasticche, un vino, una birra, la vita serena, ballavo di meno, una torta per me, pasticche, ti trovo bene, Natale, trentadue, trentatre, la taglia cinquantadue.
E non c’era niente da fare, toccava mangiare di meno, sacrificare la mia passione per la tavola, il cibo, i ristoranti. Io. Ironico.
Relegata l’Epilessia in una stanza di me, sentivo aleggiare per i corridoi lo spettro dei sofficini che furono. Ma sapevo già come combattere, perché l’Epilessia è maledetta ma ti insegna ad essere combattivo. Prima dello spettro dei sofficini c’era stato quello del fallimento, della vita normale che non sarebbe mai più tornata, del giudizio altrui, della paura di non essere amato. Poteva forse spaventarmi una pasta in bianco? Giammai. [grazie Dickens per questo paragrafo]
Questa storia ha un lieto fine, anche se la taglia small non l’ho più rivista. Barba e capelli, una felpa che maschera un po’ questa mia forma da merlo, pasticche, un bacio che sa di caffé, buona giornata. Repeat.

Di Andrea G. Capanna

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